lunedì 1 novembre 2010

Le gambe di Sonia - Capitolo 1: La riunione (parte 1)

Sonia non era bella. Capelli castano chiaro, tendente al biondo, ma senza lucentezza, un ovale piccolo e schiacciato ai poli, due guance troppo prominenti per quell'ovale e un mento troppo stretto e sporgente per quelle guance. Non aveva occhi interessanti, non aveva una bella pelle.
Aveva i seni grossi e un fisico che avrebbe anche potuto essere definito statuario se non fosse stato per i fianchi troppo grossi e l'andatura troppo sporgente in avanti. Non aveva belle mani, e probabilmente nemmeno dei bei piedi, visto che d'estate non indossava mai scarpe aperte.
Aveva pero' delle belle gambe, questo bisognava riconoscerglielo. Forse un po' troppo grosse per i gusti di alcuni, ma decisamente interessanti secondo i gusti di altri.

Sonia sapeva di avere delle belle gambe, e lo si vedeva da come non perdesse occasione di metterle in mostra. Sostanzialmente sia d'inverno che in primavera si presentava al lavoro con gonne una spanna sopra il ginocchio e collant blu scuro o nero, mai troppo trasparenti.
I suoi seni, come detto, erano abbondanti, ma non doveva considerarli molto belli, visto che era pressoché impossibile vederla con una scollatura; maglioni a collo alto d'inverno, camicette sempre abbottonatissime in primavera ed estate.

Sonia non era bella; non era nemmeno troppo brutta, a voler essere sinceri, ma il suo modo di camminare, la sua totale insicurezza, e la capacità di dire spesso cose fuori luogo credendo di essere simpatica, la rendevano il tipo di ragazza con cui anche a 20 anni ti saresti vergognato di uscire.

Io e Sonia ci conoscevamo fin da ragazzini, cresciuti nello stesso condominio di periferia avevamo frequentato anche lo stesso liceo, ma non nella stessa sezione. Non eravamo mai stati molto amici, ed anzi lei aveva avuto una specie di cotta per me verso i quindici anni; ma ho sempre pensato fosse qualcosa dovuto al fatto che, semplicemente per mia indole, ero una delle pochissime persone dell'intero quartiere a non prenderla continuamente in giro (anche se poi devo ammettere che qualche risata, quando da ragazzini si inizia a prendere di mira qualcuno, me l'ero fatta anche io).

Del resto, oltre ad avere un'aria da ragazza perennemente out, un po' secchiona e incapace di farsi rispettare, aveva un modo di cercare di essere simpatica che diventava irritante, poiché nel cercare di far vedere che aveva anche delle qualità, finiva per avere quell'atteggiamento da prima della classe che in realtà le attirava ancor più antipatie. E se questo era stato vero nella vita di tutti i giorni e a scuola, ancor più lo era sul posto di lavoro dove finiva per sembrare che volesse screditare i propri colleghi.

Avevamo ventinove anni quando ci ritrovammo a lavorare per una grossa multinazionale, di cui non farò nome per questioni di riservatezza. Lei era laureata in Chimica e aveva un ruolo non di poco conto nel settore Ricerca e Sviluppo, io mi occupavo di grafica e multimedia nel dipartimento Marketing. Capitava spesso di lavorare a contatto. Io infatti mi occupavo di preparare brochure e presentazioni multimediali per i clienti, e lei spesso supervisionava i dati e i testi tecnici.
Per lei quel lavoro era molto soddisfacente; non dico che il sogno di tutti i chimici della zona fosse quello di lavorare per quella multinazionale, ma quasi. Per me invece era sicuramente gratificante, soprattutto economicamente, ma non era certo il massimo: potevo esprimere la mia professionalità, ma di certo non potevo dare sfogo alla mia creatività.

Ad ogni modo, quando fui assunto, cioè' due anni prima dell'inizio di questa storia, si erano replicate le dinamiche dell'adolescenza, ossia io che mi limitavo a non trattarla male come gli altri e lei che pensava fossimo amici. Pensai infatti che fosse per via di questo equivoco che quel giorno si presentò nel mio ufficio con una singolare richiesta.

“Devo chiederti favore, un grosso favore”, furono le sue parole.

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